La storia dietro Diablo è ricca di passione e scelte decisive. Il primo capitolo, “Act I: No Experience Necessary“, del libro “Stay Awhile and Listen” di David L. Craddock, ci conduce alle origini di questa leggenda, presentandoci David Brevik, uno dei fondatori di Condor (la futura Blizzard North). In questo articolo, tradotto e analizzato per voi, ci immergeremo nei momenti chiave narrati nel primo capitolo. Esploreremo le prime passioni che hanno animato i futuri creatori di Diablo, dai mondi di Dungeons & Dragons ai primi computer Apple II, comprendendo come i sogni di un gruppo di adolescenti abbiano gettato le fondamenta per il gioco che tanto amiamo.
Indice
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Capitolo 1: Silicon e bikini – L’adolescenza di un visionario
Per comprendere appieno la genesi di Diablo, è fondamentale immergersi nell’adolescenza di David Brevik, il visionario che ha dato vita a uno dei giochi più iconici della storia dei videogiochi. Questo capitolo non è solo una biografia, ma un viaggio attraverso le esperienze formative che hanno plasmato la mente di un giovane sognatore, destinato a rivoluzionare il mondo dei giochi di ruolo.
Il titolo stesso del primo capitolo, “Silicio e Costumi da Bagno”, è un ossimoro intrigante che anticipa il contrasto tra il mondo interiore, fatto di circuiti e codice, e la realtà esterna, quella della California soleggiata e delle sue promesse. Ci introduce immediatamente al protagonista di questa prima parte del nostro racconto: David Brevik, un nome che risuonerà potente negli annali della storia dei videogiochi.
Queste parole, pronunciate dallo stesso David Brevik, ci catapultano immediatamente nel cuore della sua ossessione. Fin dalla giovane età, il mondo dei giochi e dei computer ha rappresentato per lui non un semplice passatempo, ma una vera e propria vocazione, un faro che illuminava la sua esistenza. Questa affermazione, apparentemente semplice, racchiude già un elemento cruciale: una dedizione quasi monastica che, come spesso accade per i grandi innovatori, comporta delle rinunce ma al contempo alimenta una forza propulsiva inarrestabile.
Il racconto ora ci porta a un flashback evocativo, trasportandoci nel seminterrato di un’abitazione, epicentro di avventure immaginarie. Qui, tra dadi poliedrici, schede personaggio e tomi di sapere arcano, si consuma il rito di Dungeons & Dragons (D&D). Questa non è una semplice descrizione di un gioco da tavolo; è la rappresentazione della fucina creativa in cui Brevik affina la sua immaginazione, impara l’arte della narrazione condivisa e si immerge in mondi di fantasia popolati da eroi e mostri.
Questa citazione è fondamentale per contestualizzare l’epoca. Siamo negli anni ’70 e ’80, un periodo di transizione in cui i videogiochi arcade iniziavano a popolare le sale giochi, ma la potenza evocativa e la libertà narrativa di D&D continuavano a esercitare un fascino irresistibile sui giovani. Brevik, come molti della sua generazione, si muoveva tra questi due mondi, assorbendo da entrambi gli elementi che avrebbero plasmato la sua visione futura. La pittura delle miniature, un dettaglio apparentemente marginale, sottolinea ulteriormente la sua immersione totale in questi universi creativi, un desiderio di dare forma fisica alla fantasia.
Nato nel 1968, la sua fascinazione per i mondi fittizi viene ulteriormente alimentata dall’arrivo in casa di un Atari Video Computer System. “Adventure”, con i suoi labirintici dungeon e la ricerca del calice magico, rappresenta un’evoluzione naturale dal gioco di ruolo cartaceo al medium interattivo.
Un altro aspetto cruciale nella formazione di Brevik fu l’incontro con l’Apple II Plus a scuola e poi a casa. Questo computer non è solo una piattaforma di gioco, ma uno strumento che dischiude a Brevik le porte della creazione. La possibilità di inserire un floppy disk e vedere un mondo prendere vita sullo schermo monocromatico è una scintilla che accende in lui il desiderio di andare oltre il semplice fruitore e diventare un artefice.
La descrizione tecnica, seppur concisa, ci ricorda i pionieristici inizi dell’informatica domestica. Le limitazioni hardware dell’epoca non rappresentavano un freno, ma anzi stimolavano la creatività dei primi sviluppatori, costretti a trovare soluzioni ingegnose per dare vita alle loro idee.
Un altro importante passo nel suo percorso fu l’accesso a un modem, che aprì un nuovo orizzonte: i Bulletin Board System (BBS). Queste bacheche virtuali diventarono un luogo di scambio di software, spesso “hackerato”, e un punto di incontro per appassionati. Brevik non solo giocava, ma iniziava a esplorare il “dietro le quinte” dei videogiochi, comprendendo la loro struttura e il loro funzionamento. La citazione dei suoi giochi preferiti, Wizardry e Ultima, sottolinea il suo interesse per i giochi di ruolo con elementi di esplorazione e progressione del personaggio, un seme che germoglierà nel suo futuro lavoro.
Il desiderio di capire “cosa facesse disegnare personaggi e mostri sullo schermo al computer” lo spinse verso la programmazione. Le riviste come Apple inCider, che pubblicavano codice sorgente di giochi completi, diventarono i suoi manuali di apprendistato. Il processo di digitare meticolosamente il codice, spesso imbattendosi in errori, e la soddisfazione di vedere finalmente il gioco prendere vita sullo schermo sono descritti in modo vivido, quasi palpabile.
Questa immagine, apparentemente banale, ci restituisce la tenacia e la passione di un giovane autodidatta che, armato solo della sua curiosità e di una rivista, si avventura nel complesso mondo della programmazione. Gli errori diventano lezioni, e ogni bug risolto è una piccola vittoria che alimenta la sua crescente competenza.
Un altro aspetto da sottolineare è come Brevik non si limitasse a copiare il codice, ma lo manipolava, lo “torceva e piegava” per rimodellare i giochi forniti. Questa precoce attitudine all’hacking creativo, al desiderio di andare oltre i limiti imposti, è un tratto distintivo che caratterizzerà la sua intera carriera.
Già al primo anno di liceo, Brevik si cimentò nella creazione di giochi originali, come il gioco di BMX inviato ad Apple inCider. Questa ambizione precoce e la chiara consapevolezza della sua passione (“volevo creare giochi e volevo pubblicarli”) ci mostrano un individuo con una visione ben definita del proprio futuro.
Un altro elemento importante nella sua vita furono i traslochi frequenti della sua famiglia a causa della carriera del padre. Questa instabilità geografica, che per molti potrebbe essere fonte di disagio, per David paradossalmente rafforzò il suo legame con i giochi e i computer, che diventarono una “sorta di ancora”, un elemento di coerenza in un mondo in continuo cambiamento.
Questa riflessione profonda ci offre una chiave di lettura importante per comprendere la centralità dei videogiochi nella vita di Brevik. Essi non sono solo intrattenimento, ma un rifugio, un linguaggio universale che gli permette di connettersi con persone affini in ogni nuova realtà.
Un altro momento significativo fu l’arrivo in California nel 1984 e il trasferimento a Danville, ai piedi del Monte Diablo. Il nome della montagna, come Brevik stesso rivela, sarà l’ispirazione per il titolo del gioco che lo consacrerà. La sua casuale scoperta del significato della parola spagnola “diablo” (“diavolo”) aggiunge un tocco di ironia e destino a questa genesi.
Al liceo, le competenze informatiche di Brevik erano tali da superare quelle dei suoi compagni e persino dell’insegnante, portandolo a ricoprire il ruolo di “co-insegnante”. Questa esperienza non solo consolidò le sue conoscenze, ma gli permise anche di affinare le sue capacità comunicative e di leadership. Parallelamente, continuò a giocare e a “prendere appunti” sulle caratteristiche che gli piacevano, preparando inconsciamente il terreno per la sua creazione.
Un altro aspetto interessante della sua adolescenza fu il suo tentativo, quasi per sfida, di cimentarsi nello sport, nonostante la sua cecità all’occhio destro e la conseguente mancanza di percezione della profondità. Questo aneddoto, raccontato con autoironia e lucidità, sottolinea come le sue vere “abilità” risiedessero altrove, nel mondo del “silicio” piuttosto che nei campi da gioco.
La decisione di frequentare il college nel 1986 non fu dettata dalla necessità di imparare un mestiere, ma piuttosto dal desiderio di “diventare più uomo” e di sperimentare la vita universitaria. Il suo lavoro part-time presso Pacific Bell, dove imparò il linguaggio dei modem, fu un’ulteriore dimostrazione della sua precoce immersione nel mondo della tecnologia.
Durante gli anni universitari alla California State University, Chico, la sua passione per i videogiochi non si affievolì, anzi, si arricchì con la scoperta dei roguelike. Giochi come Rogue, Moria e Angband, con i loro dungeon generati proceduralmente, la grafica testuale spartana ma evocativa e la meccanica della “morte permanente”, esercitarono un fascino irresistibile su Brevik.
- Moria: un gioco in cui i giocatori esploravano un dungeon infinito, combattendo mostri e raccogliendo tesori. Il gioco era noto per la sua difficoltà e per la generazione casuale dei livelli, che garantiva un’esperienza unica ogni volta che si giocava.
- Angband introduceva nuovi elementi come città, negozi e una maggiore varietà di mostri e oggetti. Il gioco era ambientato nelle profondità della fortezza di Angband, la roccaforte di Morgoth, il nemico principale dell’universo di Tolkien.
- Rogue è un gioco di ruolo a turni basato su testo, con dungeon generati proceduralmente e permadeath. Il giocatore esplora livelli sotterranei, combatte mostri e raccoglie tesori, cercando di recuperare l’Amuleto di Yendor. La grafica è composta da caratteri ASCII, e ogni partita offre un’esperienza unica grazie alla generazione casuale dei livelli.
“Derivati dal seminale gioco Rogue di Wichman e Toy, i roguelike disegnavano dungeon fatti di caratteri di testo come “-“, “#” e “!”. I giocatori guidavano un avventuriero, rappresentato sullo schermo dal simbolo “@”, attraverso i dungeon e combattevano contro mostri rappresentati da lettere maiuscole. La grafica basata sul testo era rudimentale, ma il fascino di questo genere emergente risiedeva nei suoi elementi casuali.”
Questa descrizione ci permette di comprendere l’importanza dei roguelike nell’evoluzione del pensiero di Brevik. L’elemento della casualità, la sfida della “morte permanente” e l’esplorazione di dungeon oscuri e pericolosi sono tutti elementi che ritroveremo in Diablo. La condivisione di questa passione con altri studenti nei laboratori di informatica creò una sorta di comunità sotterranea di appassionati, un ambiente fertile per la nascita di nuove idee.
Al termine del college nel 1991, Brevik aveva una visione chiara del tipo di gioco che voleva creare. Nonostante le preoccupazioni dei genitori riguardo alla precarietà dell’industria videoludica, egli era determinato a seguire la sua passione. Il suo compromesso (“Se non funziona, proverò a sviluppare i vostri noiosi programmi di fogli di calcolo o qualcosa del genere”) dimostra sia la sua sicurezza che la sua volontà di trovare un equilibrio con le aspettative familiari.
Un altro capitolo della sua vita si aprì con il suo matrimonio con Wendy Shimada e la successiva ricerca di un lavoro nell’ambito dei videogiochi. L’offerta inaspettata da parte di una società di clip art chiamata FM Waves, che stava per avventurarsi nello sviluppo di videogiochi, segnò l’inizio di una nuova fase e ci introdusse a due figure chiave che avrebbero avuto un ruolo fondamentale nel suo percorso: Max e Erich Schaefer.
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Capitolo 2: Eroi da scrivania: Quando i mondi di carta e pixel si incontrano
Il titolo “Eroi da Scrivania” evoca immediatamente un’immagine di creatività silenziosa, di menti che, dietro una scrivania, danno vita a mondi fantastici. Questo capitolo ci porta a conoscere Erich e Max Schaefer, due fratelli con un legame indissolubile e una comune passione per il gioco, che si sarebbero rivelati fondamentali nella storia che stiamo raccontando.
Queste parole di Erich Schaefer ci riportano ancora una volta all’importanza di D&D come incubatore di creatività per questa generazione di sviluppatori. Come per Brevik, il gioco di ruolo cartaceo non era solo un passatempo, ma un terreno fertile per l’immaginazione e la narrazione. Tuttavia, la sua affermazione che all’epoca non lo considerasse una carriera sottolinea come l’industria dei videogiochi fosse ancora un orizzonte lontano e incerto per molti.
Questa citazione di Max Schaefer è incredibilmente rivelatrice. Già nelle loro partite di D&D si intravede il nucleo dell’esperienza di Diablo: un’enfasi sull’azione, sul combattimento contro creature mostruose e sulla ricompensa del “loot”, degli oggetti magici e del tesoro. Questa mentalità “hack and slash”, focalizzata sul gameplay immediato e gratificante, era un elemento centrale nelle loro sessioni di gioco e si sarebbe trasferita con forza nel loro lavoro futuro.
Immaginate la California meridionale: un giovane Erich Schaefer, quattordicenne, intento a disegnare su un foglio a quadretti la planimetria di un dungeon pieno di pericoli e tesori. Questa immagine del “dungeon master” solitario, che progetta mondi per i suoi futuri avventurieri, rispecchia la passione di Brevik per la creazione, sebbene espressa attraverso un medium diverso.
Il loro rapporto fraterno era fatto di “un rapporto stretto ma spesso conflittuale e violento”, un quadro realistico di due fratelli che, nonostante le liti, condividevano un legame profondo e interessi comuni. La competizione e le prese in giro, tipiche dinamiche fraterne, non intaccavano la loro vicinanza e la loro condivisione di passioni come lo sport e, naturalmente, i giochi.
La storia prosegue raccontando i traslochi della famiglia Schaefer, simili per certi versi a quelli di Brevik, anche se meno frequenti. L’importanza delle amicizie e dei passatempi condivisi, come lo sport e i giochi, emerge come un elemento di stabilità nelle loro giovani vite. L’introduzione di Kenny Williams, un amico che condivideva la loro passione per lo sport e i giochi, sottolinea l’importanza del gruppo e della condivisione in queste prime esperienze ludiche.
Le estati trascorse tra sport all’aria aperta e le prime incursioni nelle sale giochi rappresentano un periodo formativo per i fratelli Schaefer. L’arrivo in casa di una console dedicata a Pong, seppur rudimentale, segna il loro primo contatto con i videogiochi domestici, un’esperienza che condividono con gli amici, trasformando il loro salotto in un punto di ritrovo ancora più popolare della spiaggia.
Queste brevi citazioni ci restituiscono l’entusiasmo e la novità che i primi videogiochi rappresentavano per questa generazione. Anche un gioco semplice come Pong era una “meraviglia” che catturava l’attenzione e creava momenti di condivisione.
L’evoluzione continua con l’arrivo in casa di un Apple II Plus, lo stesso computer che aveva acceso la scintilla creativa in David Brevik. Per i fratelli Schaefer, l’Apple II apre un mondo di possibilità ludiche, con giochi come Wizardry e Ultima che li catturano profondamente. La facilità con cui potevano copiare e scambiare giochi con gli amici sottolinea la natura ancora “artigianale” e comunitaria del gaming in quegli anni.
L’interesse di Erich per Wizardry è particolarmente significativo, dato che questo gioco, con la sua enfasi sull’esplorazione di dungeon, il combattimento a turni e la gestione di un party di avventurieri, rappresenta un’altra influenza chiave per il futuro Diablo. La sua preferenza per l’azione e il combattimento rispetto a storie complesse si allinea perfettamente con l’attitudine “hack and slash” intravista nelle loro partite di D&D.
Anche Max condivide questa preferenza per l’azione, sia essa ambientata in mondi fantasy o nello spazio. Questa comune inclinazione verso un gameplay dinamico e gratificante è un elemento fondamentale che unirà i fratelli Schaefer nella loro futura collaborazione.
Un altro momento cruciale è l’introduzione al set base di Dungeons & Dragons, comprato dal padre come intrattenimento durante una vacanza. Mentre Max potrebbe non averlo giocato molto durante quel viaggio, Erich viene immediatamente catturato dalle regole e dalle possibilità creative del gioco.
Per Erich, il ruolo di dungeon master si rivela particolarmente congeniale. Amava creare mappe, progettare campagne e orchestrare le avventure per i suoi amici. Anche quando i suoi compagni non erano sempre entusiasti come lui, la sua passione per la creazione di mondi e sfide rimaneva intatta.
Le campagne di Erich, proprio come le loro sessioni di D&D descritte da Max, erano focalizzate sull’azione e sul “saccheggio”: entrare in un luogo pieno di mostri e tesori e uscirne ricchi. Questa filosofia di gameplay diretto e gratificante era profondamente radicata nelle loro esperienze ludiche.
Nonostante la loro passione per i giochi, i genitori dei fratelli Schaefer li incoraggiano a considerare percorsi di studio più “seri”, riflettendo una visione comune all’epoca in cui i videogiochi non erano ancora percepiti come una vera e propria carriera. La loro predisposizione per la matematica e le scienze sembrava indirizzarli verso professioni più tradizionali.
La scelta di Erich di studiare informatica alla Carnegie Mellon nel 1984 è presentata come una decisione logica, basata sul suo interesse per la matematica e la manipolazione dei dati sui computer. Tuttavia, il suo percorso universitario si rivela tutt’altro che lineare.
Il racconto delle peregrinazioni universitarie di Erich, che lo portano dall’informatica al cinema e infine all’abbandono degli studi, ci mostra un individuo alla ricerca della propria strada, con una passione per la creatività che non trovava piena espressione nei percorsi accademici tradizionali.
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Capitolo 3: L’incontro tra Brevik e i Schaefer – La nascita di Condor
Prima di ogni cosa, Erich Schaefer, Max Schaefer e David Brevik avevano condiviso un’esperienza formativa, seppur con un esito commerciale non esaltante: il progetto Gordo 106. Questo platform a scorrimento orizzontale per la console portatile Atari Lynx, sviluppato mentre lavoravano presso FM Waves, vedeva come protagonista una scimmia di nome Gordo capace di “oscillare” attraverso i livelli in modo simile a Spider-Man. Nonostante l’impegno profuso nel creare una meccanica di movimento unica e divertente, Gordo 106 uscì proprio alla fine del ciclo vitale del Lynx, raggiungendo un pubblico molto ristretto.
Queste parole ci fanno capire la consapevolezza che stava nascendo tra Erich, Max e David: il loro futuro era nel mondo dei videogiochi. L’avventura con Gordo 106, seppur frenata dal destino del Lynx, aveva rafforzato la loro convinzione e acceso una forte ambizione di creare qualcosa di proprio.
David Brevik ci regala uno spaccato umoristico e senza filtri degli albori di Condor, il nome in codice del loro progetto indipendente:
Questa citazione, con la sua semplicità e un tono quasi casuale, cattura alla perfezione lo spirito pionieristico e un po’ improvvisato che spesso caratterizza gli inizi delle startup. La mancanza di risorse economiche importanti non spaventa questi tre appassionati, mossi da una grande voglia di trasformare il loro sogno in realtà.
Torniamo per un momento al lavoro su Gordo 106 presso FM Waves. Immaginate l’atmosfera nel loro “laboratorio di idee” e Gordo, la scimmia protagonista, che prendeva forma. L’idea di un personaggio con un movimento unico, ispirato a Spider-Man, mostra la loro costante ricerca di elementi freschi e originali.
La collaborazione tra David (il mago del codice) e i fratelli Schaefer (gli artisti creativi) iniziava a definirsi sempre più chiaramente. Mike Sigal, un altro dei fondatori di FM Waves, ricorda l’emozione nel vedere i primi sprite animati di Gordo muoversi fluidamente sullo schermo grazie al talento di Brevik:
Max Schaefer riconosce il talento precoce di David nel dare vita ai giochi, nonostante la sua autoironica ammissione di non essere un artista di grande livello:
La divisione dei compiti all’interno del team di Gordo 106 vedeva David concentrato sulla programmazione, Max impegnato nel design dei livelli ed Erich nell’animazione dei personaggi. La loro collaborazione era un processo entusiasmante, dove l’arte prendeva forma grazie alla magia del codice.
Erich Schaefer riflette sul suo amore per la creazione artistica, una passione messa alla prova dalle limitazioni tecniche dell’epoca, e sul fascino del lavoro di squadra nello sviluppo di giochi:
Max condivide l’entusiasmo crescente nel vedere Gordo 106 prendere forma e la consapevolezza del loro potenziale:
Tuttavia, l’atmosfera positiva presso FM Waves inizia a incrinarsi a causa di problemi finanziari sempre più pressanti. Ef Wyeth descrive la situazione precaria dell’azienda:
È proprio in questo clima di crescente incertezza che l’idea di mettersi in proprio, quel “Progetto Condor” di cui parlava Erich, inizia a farsi strada sempre più concretamente tra David e i fratelli Schaefer.
Nonostante la prospettiva allettante dell’indipendenza, il salto non è immediato. Lavorare a FM Waves, nonostante i ritardi negli stipendi, rappresentava comunque un ambiente amichevole e familiare.
La situazione precipita quando gli stipendi smettono di arrivare nell’estate del 1991. Mike Sigal riflette sulla difficile decisione di lasciare l’azienda:
Anche David Brevik si trova di fronte a una scelta difficile. La necessità di provvedere alla sua famiglia lo spinge a cercare una maggiore stabilità economica:
La ricerca di un nuovo lavoro porta Brevik a Iguana Entertainment, una nuova azienda a Santa Clara. Il suo lavoro di conversione del gioco arcade Super High Impact per Sega Genesis si rivela un successo, dimostrando ancora una volta il suo talento.
Il successo di Super High Impact consolida la posizione di Brevik all’interno di Iguana e gli permette di avere un peso maggiore sulle decisioni future. Un momento cruciale è l’opportunità di lavorare su Mortal Kombat, un gioco che Brevik riconosce subito come un potenziale enorme successo, ma che inizialmente viene accolto con scetticismo dal co-fondatore di Iguana, Jeff Spangenberg.
La decisione di Iguana di non puntare su Mortal Kombat si rivelerà un errore strategico, visto l’enorme successo che il gioco otterrà in seguito. Tuttavia, per Brevik, questa esperienza rafforza la sua capacità di intuire il potenziale di un videogioco.
Successivamente, Brevik lavora su altri progetti per Iguana, come Aero the Acrobat, e convince l’azienda a sviluppare la conversione per console di NBA Jam, un altro grande successo. Ma un cambiamento inatteso si profila all’orizzonte: il trasferimento di Iguana in Texas.
Questo è il momento chiave in cui il “Progetto Condor” torna prepotentemente alla ribalta. Brevik, non intenzionato a trasferirsi in Texas, vede l’occasione perfetta per realizzare il sogno di creare la propria software house con Max ed Erich.
Nel frattempo, il destino di FM Waves (diventata Tenth Planet) e di Gordo 106 si compie. I problemi finanziari e la scarsa diffusione dell’Atari Lynx condannano il gioco al fallimento commerciale. Ef Wyeth descrive le difficoltà incontrate con Atari:
La chiusura di Tenth Planet lascia Max ed Erich con un po’ di vecchia attrezzatura e la ferma intenzione di continuare a sviluppare giochi. Fondano Atomic Games con un altro programmatore, Joe Jared, e tentano di portare Gordo 106 sul Super Nintendo, ottenendo anche un contratto con un piccolo editore, DTMC. Matt Householder, VP dello sviluppo di DTMC, ricorda il suo incontro con i fratelli Schaefer:
Tuttavia, lo sviluppo di Gordo 106 per Super Nintendo si rivela pieno di ostacoli, con Atomic Games ancora inesperta e bisognosa di una guida esperta nella programmazione. È proprio in questo momento di incertezza che squilla il telefono: è David Brevik.
La prima chiamata di Brevik a Max ed Erich, mentre lavora ancora per Iguana, non va a buon fine. Max ricorda con un po’ di amarezza:
Ma il destino aveva altri piani. La perdita del contratto con DTMC lascia Max ed Erich nuovamente senza un progetto. È in questo momento di sconforto che arriva la seconda telefonata di David Brevik, quella decisiva:
Max e Erich staccarono una banconota da venti dal loro gruzzolo, comprarono un po’ di alcol, alzarono il volume dello stereo e iniziarono a scambiarsi idee su cosa fare dopo. Qualcosa sarebbe venuto fuori. Qualcosa succedeva sempre. Diverse ore e bottiglie di birra dopo, il telefono squillò. Max rispose e borbottò un saluto. Dall’altra parte, Dave disse loro con entusiasmo che aveva deciso di non trasferirsi in Texas. Progetto Condor era un go.
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Capitolo 4: Superman non può calciare: Le prime battaglie di Condor
Immaginate la scena: Michio Okamura, uno dei primi artisti ad unirsi alla squadra di Condor, seduto in quella che sembrava più una postazione di fortuna che un vero ufficio. La gente entrava e usciva, lasciando la posta e scambiandolo per il receptionist.
Ero seduto nella stanza anteriore e la gente entrava e lasciava la posta, pensando che fossi il receptionist. Ero solo a un tavolino con una lightbox e un piccolo telefono.
Questa immagine un po’ surreale ci dà un’idea delle umili origini di Condor, un contrasto stridente con l’ambizione che animava il team.
Matt Uelmen, il futuro mago delle musiche di Diablo, ricorda come la mancanza di fondi portasse a serate “sociali” molto particolari, tutte incentrate sui videogiochi, creando una cultura aziendale davvero unica:
I nostri grandi eventi sociali in ufficio spesso ruotavano attorno a *NHL ’94* per il Genesis, a cui Max era piuttosto bravo. Abbiamo accidentalmente creato una cultura genuinamente incentrata sui giochi, un risultato naturale della mancanza di soldi per molto altro.
Kelly Johnson, un altro artista che si sarebbe unito presto al gruppo, dipinge un quadretto pittoresco e un po’ sgangherato dei primissimi giorni di Condor:
Max ed Erich avevano questo vecchio furgone, un Vanagon malconcio. Era praticamente la nostra auto aziendale: un furgone bianco, con il paraurti mancante e senza copriruota. Ma in fondo eravamo così. Un gruppo di straccioni.
Torniamo alla fine dell’agosto 1993. David Brevik aveva riunito Max ed Erich nel suo piccolo appartamento per discutere del futuro della loro neonata azienda. Nonostante le scarse risorse, la determinazione e la rete di contatti di Dave erano le loro armi principali. Brevik spiega la sua decisione di non trasferirsi con Iguana, sentendosi in qualche modo “in debito” con l’azienda e non volendo sottrarre loro talenti.
Iguana si stava trasferendo in Texas. Quando presero la decisione, molto dipendeva dal fatto che mi trasferissi anch’io. All’inizio dissi di sì, ma all’ultimo momento cambiai idea e dissi di no. Perciò mi sentii come se non potessi davvero portare via nessuno da quella situazione.
Il destino sembrava avere grandi progetti per Condor fin dal suo inizio. Proprio durante uno dei loro primissimi incontri, il telefono squillò. Era David Siller di Sunsoft, un contatto che Brevik aveva coltivato durante il suo lavoro su Aero the Acrobat.
Poco dopo aver fondato Condor—anzi, durante il nostro primo incontro—ricevemmo una chiamata da qualcuno che aveva lavorato con David al progetto *Aero the Acrobat*. Ci chiamò di punto in bianco proprio durante la nostra prima riunione e disse: “Ehi, vogliamo che facciate giochi per noi.”
Così, nel nostro primo incontro organizzativo per la nuova azienda, Condor, ci trovammo subito di fronte a un’offerta: potevamo scegliere da una lista di giochi da sviluppare. Fu una coincidenza davvero incredibile. Stavamo appena discutendo del nostro futuro, il telefono squillò e trovammo subito lavoro. Fu solo uno dei tanti eventi fortunati che ci capitarono lungo la strada.
Sunsoft offrì a Condor la possibilità di scegliere tra diversi progetti, tra cui un gioco di Scooby-Doo, uno degli Aerosmith e Justice League Task Force. Brevik, con la sua solita intuizione, puntò su quest’ultimo, nonostante il potenziale commerciale apparentemente maggiore del gioco degli Aerosmith.
Dave si avvicinò a me e disse: “Non andrò ad Austin.” Me lo confidò con un certo riserbo, così gli risposi: “Beh, apprezzo molto i tuoi sforzi su questi progetti. Forse possiamo parlarne e vedere se possiamo fare qualcosa insieme.”
Sunsoft ci propose alcune opzioni: *Scooby-Doo*, un gioco sugli *Aerosmith* o *Justice League Task Force*. Ci chiesero: “Quale volete fare?” Io risposi: “*Justice League*.”
Loro ribatterono: “Cosa? Il gioco degli *Aerosmith* sarà molto più grande.”
Io replicai: “Ma non c’è un gioco lì.”
Ovviamente, questo accadde molto prima di *Rock Band*.
L’ottenimento del contratto per Justice League Task Force, un picchiaduro chiaramente ispirato a Street Fighter II, segnò il primo grande traguardo di Condor. Subito dopo, il team si concentrò su questioni pratiche come la scelta del nome ufficiale dell’azienda (Condor, Inc.) e la definizione dei ruoli. La decisione sui titoli, tra l’altro, fu presa in modo tutt’altro che formale: tirando a sorte. Max Schaefer spiega la sua “nomina” a CEO:
Ero CEO semplicemente perché serviva qualcuno in quel ruolo, e probabilmente ero il più adatto a respingere le intrusioni degli editori. Anche quando siamo cresciuti, Dave, Erich e io abbiamo sempre gestito l’azienda come una sorta di mostro a tre teste. I titoli erano solo una formalità. Qualsiasi decisione importante veniva presa insieme, da noi tre.
Entro il 10 settembre 1993, Condor era ufficialmente operativa. Il passo successivo era trovare un ufficio. La scelta cadde su un piccolo parco uffici a Redwood City, una posizione comoda per tutti e tre i fondatori. L’esterno idilliaco contrastava con l’interno modesto e un po’ trasandato.
David si creò il suo spazio come una tipica “caverna da programmatore”, mentre Max ed Erich si sistemarono in un ufficio adiacente per collaborare sull’aspetto artistico di Justice League Task Force. Il loro obiettivo iniziale era semplice: replicare il gameplay di Street Fighter II con i supereroi DC. Tuttavia, si resero presto conto della necessità di un artista con una solida esperienza nel disegno di supereroi.
La prima cosa che abbiamo capito sviluppando questo gioco è stata che avevamo bisogno di qualcuno in grado di disegnare supereroi a livello professionale, perché di certo né Erich né io eravamo in grado di farlo. Potevamo occuparci di sfondi, mostri e tutto il resto, ma creare una figura umana iconica, un supereroe, non è qualcosa che si può improvvisare.
Contemporaneamente, Condor accettò un altro contratto da Acclaim per sviluppare NFL Quarterback Club per Game Boy, un’opportunità che portò alla necessità di assumere più personale, sia programmatori che artisti.
La risposta a un annuncio di lavoro portò all’assunzione di Michio Okamura, un artista con una solida esperienza nel fumetto indipendente e una vera passione per i supereroi. Okamura racconta il suo percorso, dalla creazione di illustrazioni fantasy per giochi di ruolo cartacei al lavoro nel settore dell’import-export, fino alla decisione di inseguire finalmente il suo sogno di lavorare nell’arte creativa.
Ho lavorato per un po’ nei fumetti indipendenti, poi mi sono sposato e ho avuto figli. Avevo bisogno di un lavoro rispettabile, così ho lavorato per circa cinque anni in una società giapponese occupandomi di import-export.
In quel periodo sono diventato responsabile della distribuzione per la costa occidentale e stavano persino valutando di promuovermi a vicepresidente della regione. Mi avrebbero insegnato a giocare a golf, avrei dovuto indossare abiti eleganti e parlare con i clienti.
Fu allora che ebbi un attacco di panico. Stavo per compiere 30 anni e mi dissi: *Non voglio fare questo per tutta la vita. Voglio fare qualcosa di creativo. Voglio [creare] arte.*
Era la mia ultima occasione. Decisi di prendermi una pausa, dedicarmi all’arte per un po’, togliermela dalla testa… e poi, magari, tornare a un lavoro rispettabile.
Il colloquio di Okamura con i fondatori di Condor, vestiti in modo tutt’altro che formale, lo spiazzò inizialmente, ma la conversazione si spostò rapidamente su interessi comuni come il kung fu, i fumetti e i giochi di combattimento, mettendo a suo agio l’artista. Un rapido test di disegno convinse Dave e Max ad assumerlo immediatamente.
Tuttavia, l’entusiasmo iniziale di Okamura per l’idea di disegnare Superman e altri supereroi si scontrò presto con una realtà inaspettata: la sua totale inesperienza con la grafica digitale.
Non avevo esperienza di lavoro al computer, a parte la documentazione di import-export per la dogana. Fare arte è qualcosa di completamente diverso rispetto al semplice utilizzo di un’applicazione. Non avevo mai [disegnato] nulla al computer.
Così, per l’intero progetto *Justice League*, ho usato pochissimo il computer. Quasi tutto ciò che ho realizzato è stato disegnato a mano.
Max ed Erich, grazie alla loro inventiva, svilupparono una pipeline artistica che valorizzava le abilità tradizionali di Okamura: lui disegnava i personaggi su carta, mentre loro li scansionavano, ridimensionavano e coloravano digitalmente con Deluxe Paint.
Oltre al suo contributo artistico, Okamura aiutò anche a comprendere le dinamiche dei giochi di combattimento, studiando le animazioni fluide e le combo di Street Fighter II.
Nel frattempo, Dave Brevik si concentrava sugli aspetti tecnici, affrontando le sfide della programmazione per Sega Genesis e Game Boy. Condor investì una parte significativa del budget iniziale in un kit di sviluppo per Sega Genesis, ma la necessità di lavorare anche al progetto per Game Boy portò alla ricerca di un altro programmatore.
Richard “Rick” Seis rispose a un annuncio di lavoro di Condor. La sua storia era simile a quella di Brevik: una passione precoce per i videogiochi e una forte determinazione a lavorare nel settore. Dopo un periodo in un impiego più “rispettabile” ma insoddisfacente, decise di tentare la fortuna nell’industria videoludica. Il suo colloquio a Condor fu memorabile, culminando in una partita a NHL ’94 che Rick vinse, dimostrando la sua dedizione al gaming. Fu assunto immediatamente, accettando persino una significativa riduzione di stipendio pur di realizzare il suo sogno.
Rick si integrò rapidamente nel team, lavorando al fianco di Dave sui progetti per Game Boy e Game Gear. La sfida principale della programmazione per queste piattaforme era ottimizzare il codice per sfruttare al massimo le limitate risorse hardware.
Mentre la programmazione avanzava, il team artistico di Justice League Task Force si scontrò con le restrizioni imposte dalla DC Comics, proprietaria dei personaggi. Un aneddoto emblematico fu il veto imposto dalla DC su un dettaglio curioso: Superman non poteva calciare.
Lavorare con la proprietà intellettuale di qualcun altro ha sempre vantaggi e svantaggi. Il vantaggio è che puoi contare su personaggi già noti, con un pubblico consolidato e un riconoscimento immediato da parte dei consumatori.
Il problema, però, è che spesso queste IP non sono pensate per i videogiochi. […] Un esempio famoso è la storia di *”Superman non può calciare”*.
La DC Comics, appellandosi alla presunta “canonicità” dei fumetti, vietò a Superman di usare i calci nel gioco, costringendo Condor a trovare soluzioni alternative, come dotare l’Uomo d’Acciaio di una maggiore varietà di pugni. Max Schaefer ricorda le strane interazioni con la DC, che forniva feedback basandosi su videocassette sbiadite del gameplay.
Anche l’aspetto dei personaggi era soggetto a rigide restrizioni, vincolato agli archi narrativi in corso nei fumetti. Questo portò Michio Okamura a disegnare un Superman con i capelli lunghi, un look che personalmente non apprezzava.
Nonostante le sfide e le limitazioni, Condor continuava a crescere. Vennero assunti nuovi artisti, tra cui Tom Byrne e Kelly Johnson, quest’ultimo impressionando Max con un disegno di Superman realizzato su un semplice tovagliolo. La necessità di un altro programmatore portò all’ingresso di Matt Uelmen, la cui insistenza nel chiedere un lavoro divenne “leggendaria” secondo Brevik.
Uelmen, musicista con una profonda passione per i videogiochi, si integrò perfettamente nella cultura “gamer-centrica” di Condor. In ufficio si fece notare non solo per il suo talento musicale, ma anche per la sua abilità (e la sua tendenza a trollare) in giochi come NHL ’94.
Il team di Condor trovava sempre il tempo per immergersi nei nuovi videogiochi, e l’arrivo di Doom in ufficio segnò un momento di intensa fascinazione. Le sessioni multiplayer “improvvisate”, giocate nella stessa stanza con i partecipanti che si urlavano le loro posizioni a vicenda, creavano momenti di puro terrore e divertimento condiviso.
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Timeline
- 1970s-1980s: Infanzia e Formazione – Scopre Dungeons & Dragons, arcade come Pac-Man e inizia a programmare su Apple II Plus.
- 1986-1991: Studi Universitari – Studia alla California State University, Chico. Scambia software su BBS e sviluppa primi giochi.
- 1991-1993: Lavoro in FM Waves – Sviluppa Gordo 106 per Atari Lynx con Max ed Erich Schaefer.
- 1993: Fondazione di Condor – Con Max ed Erich fonda Condor. Primo progetto: Justice League Task Force per Sunsoft.
- 1994-1995: Crescita di Condor – Condor sviluppa NFL Quarterback Club e cresce il team con nuovi artisti e programmatori.

Sebbene i primi capitoli di Stay Awhile and Listen si concentrino sulla genesi di Condor e sui loro primi progetti, emergono già diversi elementi fondamentali che gettano le basi per la futura creazione di Diablo. La passione di David Brevik per i giochi roguelike, l’attitudine hack and slash radicata nelle esperienze di D&D dei fratelli Schaefer, l’immersione del team in atmosfere oscure e brutali con giochi come Doom e, soprattutto, il desiderio di Condor di sviluppare un progetto personale, libero dalle limitazioni imposte da licenze esterne, sono tutti segnali che anticipano la nascita di un titolo come Diablo.
La sinergia tra i talenti complementari del team, dalla programmazione all’arte fino alla musica, avrebbe presto trovato la sua massima espressione nella creazione di questo gioco iconico, unendo passioni individuali in un’esperienza oscura, coinvolgente e profondamente gratificante.
Nel prossimo articolo, approfondiremo come il team di Condor abbia iniziato a plasmare Diablo, dalle prime idee alla sua evoluzione, fino a diventare il capolavoro che tutti conosciamo.